UGO LEVITA

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Levita, l'inconscio come figurazione infinita

 

Vittorio Sgarbi, 2017

 

Imaginifica. Così, dovendo usare un solo termine, definirei l'arte di Ugo Levita, campano di nascita diventato umbro de facto, che da tempo ormai non più prossimo ho avuto varie occasioni di seguire e apprezzare. Imaginifica nel senso storico più pertinente, quello che d'Annunzio attribuisce all'autobiografico Stelio Effrena de Il fuoco, facendo Levita dell'immaginazione e della sua traduzione in termini visuali, per imagines, quindi, il fulcro del suo modo di esprimersi. Disegnatore dalle capacità fuori dal comune, ottenute attraverso la più onesta delle formazioni professionali, quella manuale, Levita le orienta subito in direzione del suo primo oggetto di fascinazione artistica, il Surrealismo, condividendo con Dalì e Magritte la fiducia nell'ortodossia della figurazione antropocentrica come Königsweg (strada maestra) verso la scoperta dell'inconscio, per usare le parole con cui Freud definisce il sogno.

Anche i metodi di esplorazione dell'immaginario più recondito di cui Levita si serve trovano fondamento nella poetica surrealista, in primo luogo la costruzione per associazioni di elementi che il senso abituale riterrebbe incongrui, dispiegate in una serie di soluzioni che contemplano sempre la possibilità di nuove varianti, teoricamente inesauribili; ma in quanto all'automatismo psichico, lo strumento surrealista per antonomasia, secondo André Breton, ho dubbi che Levita, troppo cosciente dei suoi mezzi, giunti nel frattempo a conseguire una maturità pressoché assoluta, ne faccia ancora un impiego sistematico, se non presupponendolo come radice originaria della sua creatività, così come del resto facevano anche Dalì e Magritte. Credo che in tal senso sia più forte, in lui, l'antico principio manierista per cui è sempre il disegno a creare qualsiasi universo visivo, compreso quello derivabile dalla nostra componente più interiore, e non viceversa.

Se quindi è il disegno il motore primo da cui tutto artisticamente deriva, e l'inconscio solo un suo referente, non è tanto il caos determinato dalla libera elaborazione fantastica il campo in cui le rappresentazioni di Levita si muovono, come pure a qualcuno è parso, quanto, semmai, il tentativo di rinvenire in quel caos, proprio attraverso l'atto pittorico, interpretato, per dirla ancora con le parole di Breton, come “forza organizzatrice della casualità”, il barlume di un ordine complessivo, per quanto disorganico rispetto alle idee più frequenti di equilibrio e paratassi, la parvenza di una ratio che, seppure differente da quella vigente nelle nostre consuetudini ordinarie, non sia del tutto inconciliabile con essa, permettendoci almeno di riflettere sul fatto che le sue manifestazioni possano avere un significato, anche quando dovesse sfuggirci completamente.

Sotto questo aspetto, vedere un'opera di Levita equivale ad ascoltare una lingua che non conosciamo e le cui combinazioni fonetiche, portatrici di senso nella nostra, ci appaiono  sconclusionate e arbitrarie, ma ci affascinano ugualmente per via della loro inedita sonorità, facendoci immaginare la possibilità di riconoscere in essa delle assonanze con il nostro modo di intendere e comunicare. Nell'incertezza, però, di una corrispondenza davvero stabile fra le due lingue, preferiamo affidarci ad altri canali nel rapportarci empaticamente con quelle immagini, subendo volentieri, per esempio, il piacere barocco per la stupefazione, certamente caro a Levita, o la suggestione simbolista per l'arcano, evocata più o meno intenzionalmente in qualche archetipo come quei labirinti di Chartres, circolari, impiegati anche a mò di aureole, che odorano di psicanalisi e di sfuggenti complessità borgesiane.

In effetti, tutto, nei dipinti di Levita, sarebbe inquadrabile nei binari dei nostri schemi mentali più regolari, se venisse considerato singolarmente, fuori dal contesto di collocazione; è il loro assemblaggio in un unicum visivamente compatto, ma dissociato concettualmente, almeno così ci sembra inizialmente, a determinare disorientamento, a istillare impressioni di precarietà, ma non nelle immagini, che anzi, per maestria formale e sapienza compositiva finiscono per incuterci spontaneo rispetto, perfino soggezione, è in noi, nelle nostre auree convinzioni, fino a un momento prima granitiche, ora diventate improvvisamente d'argilla, che si incrina qualcosa, denudandoci nella nostra imprevista debolezza.

Forse lo scopo maggiore delle opere di Levita, filosofico, prima ancora che artistico, è insinuare in noi un dubbio supremo, terrificante nell'ineludibilità della sua sostanza: e se fosse la realtà, o meglio, quella che ci fanno ritenere tale, la grande aberrazione, l'abbaglio alla base di tutti gli altri? Se fosse quello rivelatoci da Levita il vero mondo, intuibile solo per chi avesse il dono di poterlo intuire, servendo a poco o a nulla la ragione?

                                                                                   

Vittorio Sgarbi