UGO LEVITA

 pittore

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LO SGUARDO DELL’ARTE

Vitaliano Corbi

dal quotidiano La Repubblica, 2000

 

Il repertorio iconografico della pittura di Ugo Levita è uno dei più vari che si possano immaginare: figure femminili, bambini, uomini di ogni razza ed età, uccelli, farfalle, pesci, gatti, oggetti d’uso comune e oggetti rari, sedie, bicchieri, coppe, gabbie, nastri, lacci e sfere colorate, strumenti musicali, vesti e tappeti esotici, drappi, panneggi e poi, in grande abbondanza, fregi scolpiti, rilievi e statue marmoree, busti di bronzo, bambole, manichini, maschere e mascherine di tutte le specie. L’elenco, molto approssimativo e largamente incompleto, non dà che una pallida idea della folla eterogenea che abita questo mondo strano e disordinato come il ripostiglio d’un rigattiere. Ma l’assenza di una logica tassonomica non confonde la vista. Anche nei più affollati dipinti di Levita non c’è frammento, dettaglio o particolare, per minimo che sia, che non ci venga mostrato con la massima evidenza, con una messa a fuoco perfetta, dai primi agli ultimi piani. Si direbbe, anzi, che l’apparente casualità con cui le cose sono distribuite nello spazio della pittura contribuisca ad esaltare le loro caratteristiche individuali.                                                                       

 

Eppure è innegabile l’impressione che in questa perfetta visibilità ci sia qualcosa che ci sfugge, che si sottrae alla nostra conoscenza. E il criterio della verosomiglianza, cui l’artista sembra aver giurato fedeltà, non aiuta a trovare il bandolo della matassa. Perché, ad esempio, quella figura di ragazza dai capelli lunghi taglia in diagonale l’intero dipinto come sospesa nell’aria, mentre la sua veste s’allarga e si spiana a fare da sfondo perfettamente bidimensionale alla bianca statua dalla cui testa mutila spuntano, in enigmatica successione, una sfera azzurra e un pettoruto colombo? Perché i frammenti di lapidi antiche convivono con quelle esotiche, fiammeggianti decorazioni, di gusto vagamente liberty e precolombiano, da cui occhieggiano divinità solari e demoniche figurazioni? Per cercare di capire, puoi ripensare alla pittura metafisica o al surrealismo. Ma non è di molto aiuto, perché a creare problemi non è tanto la vista di certi inaspettati incontri. Troppo tempo è passato da quando il primo ombrello fu poggiato sul tavolo d’una sala operatoria. E, d’altra parte, le intricate foreste dei simboli, dove alcuni pensano che si nascondano le risposte agli enigmi della pittura, sono oramai frequentate da schiere di dotti iconologi, sovraccarichi di strumenti filologici, alchemici e psicanalitici.                                                                                                                        

In realtà il problema è un altro. Bisognerebbe, infatti, non avere occhi per non accorgersi che se c’è una “stranezza” nei dipinti di Levita essa precede la questione del significato delle iconi e riguarda direttamente la struttura di queste, la loro organizzazione nello spazio della pittura. Prima di porci domande sul significato, bisognerà che ci chiediamo cosa veramente “vediamo” in un dipinto di Levita. La domanda mette in dubbio  la solidità di quel criterio di verosomiglianza cui prima s’è accennato. E ciò accade particolarmente quando in quello che figurativamente dovrebbe essere un unico oggetto scopriamo la convivenza di situazioni spaziali incompatibili. Esempi di ambiguità percettiva che possono ricordare talvolta certe sottigliezze escheriane si ripetono con grande frequenza nei dipinti di Levita, in maniera ora vistosa e spettacolare ora appena segnalata da qualche criptico indizio. Un Pulcinella disteso sull’azzurro d’un mare solidificato domina plasticamente la parte centrale di un dipinto, mentre il lato sinistro è occupato da una composizione decorativa che fonde frammenti di scrittura, motivi geometrici e stilizzate figurazioni. La complessità della struttura spaziale dell’opera a prima vista può anche sfuggire. Ma si rivela in tutta la sua irriducibile ambiguità quando, fermando lo sguardo sulla giuntura tra le due parti, ci si accorge di una serie di “inverosimili” passaggi dimensionali, quale, ad esempio, quello della mano del Pulcinella di forte rilievo plastico che scompare nella bocca di un pesce assolutamente piatto: vale a dire che uno spazio tridimensionale è ingoiato da uno spazio a due dimensioni.                                                                                               Questa di Levita non è, dunque, una pittura di tranquilla matrice figurativa, fatta per soddisfare la voglia di normalità di un pubblico legato alle verità del senso comune. Ma si sbaglierebbe anche a pensare che si tratti di una divertita ricerca di paradossi percettivi. Non si può negare che in Levita vi siano il piacere e persino l’accanimento del “virtuoso” impegnato a sfidare i limiti illusivi della pittura. Ma quelle situazioni di ambiguità, in cui si rileva la presenza di due opposti codici spaziali, ci fanno comprendere che l’artista, col suo gioco di abilità mimetiche e di procedimenti astrattivi, col suo alterno sporgersi e ritirarsi dalla realtà, concentra tutta la propria inquieta curiosità sull’arte stessa e fa di questa un luogo magico, di trasmutazioni sospese tra la rivelazione dello splendore della bellezza e l’orrore del suo volto oscuro. L’arte è il momento della pietrificazione di questa ambiguità metamorfica. E non è un caso se Levita riempie i suoi quadri di sculture marmoree e di ogni altro genere d’immagini effigiate nei materiali duri. Lo sguardo dell’arte, mosso dal desiderio di riconciliarsi col mondo, ritorna su se stesso. Le citazioni, che abbondano nei dipinti di Levita, sono il segno dell’amore di Narciso. Il percorso circolare, che elide il momento dell’abbraccio dell’arte con la vita, con inutile insistenza annunciato dalle avanguardie novecentesche, suggella col gesto delle mani che tornano al petto il segreto della chiusa perfezione dell’immagine.                                                     

 

Perché un’aria così immobile? Perché ogni cosa sembra inchiodata per sempre al suo ultimo aspetto? In questo mondo disseminato di segnali di vita e di morte in realtà non sta accadendo assolutamente nulla. La scena, nella pittura di Levita, non è il crocevia tra il passato e il futuro. Il tempo si è già tutto compiuto – dall’inizio alla fine – nel presente dell’immagine. Le ali distese degli uccelli, la bocca del bambino aperta al pianto bloccano lo svolgersi di un’azione nell’immobilità assoluta. Viene in mente una riflessione di Leonardo Sciascia in cui lo scrittore siciliano intuisce nella fissità del ritratto fotografico il rivelarsi di una verità, che non è quella della somiglianza, ma dell’entelechia, del compiersi cioè di un destino, per cui “un uomo che muore tragicamente è, in ogni punto della sua vita, un uomo che morirà tragicamente”. Non c’è forse artista che più di Levita sia riuscito a dare nelle sue opere questo sentimento di contrazione del tempo, quest’immagine di un presente che è compimento di un destino. L’immagine di un dipinto rispetto al mondo è solo “un frammento di eternità” (che è – ci ricorda Sciascia – la definizione che ha dato Goethe dell’entelechia).                                                                                                                   Forse è per questo che le opere di Levita, pur essendo icone di nascita e di morte, icone che intrecciano memoria e attesa, e le stagioni dell’esistenza individuale con quelle della storia, mostrano di possedere una forma che le chiude nella loro compatta integrità pittorica. Talvolta la composizione prende l’andamento circolare di un vento vorticoso che investe e frantuma l’ordine delle cose e le spinge verso il fondo, dove giace il fascinoso lutto della perla nera. Ci sono altri dipinti dove la grandiosa, barocca scenografia del tempo e delle sue metamorfosi si riassume, alla fine, in una perturbante iconografia di morte. Ma se è di questo che parla la sua opera, Levita non vuole, tuttavia, che la pittura assuma su di sé la precarietà degli eventi, e in primo luogo di quelli attraverso cui l’opera stessa viene alla luce, poiché i segni della sua nascita sarebbero anche, inevitabilmente, i segni che annunciano la morte. Perciò Levita, diversamente dalla maggior parte degli artisti contemporanei, evita accuratamente che insieme con il “gesto”, insieme con la traccia dell’azione faccia irruzione la dimensione del tempo. Egli vuole che la pittura appaia nella sua incorruttibile purezza come un “frammento di eternità”. I suoi dipinti possono ospitare relitti e frammenti che provengono dal mondo degli eventi, ma la loro effigie, per mutila e corrosa che sia, aspira a rimanere, nel luogo della pittura, l’ultima ed eterna. L’icasticità nitida, incisiva, persino crudele, delle immagini di Levita, l’aria straniata e folle che spesso hanno i suoi personaggi sono l’effetto di quel passaggio paralizzante dalla dimensione del reale a quella dell’arte. E questa non si illude di poter compiere il miracolo di sottrarre l’esistenza al suo destino di caducità. Ma tenta di custodire nell’immobile perfezione della forma l’invincibile sogno di eternità dell’uomo.