UGO LEVITA
pittore
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Ugo Levita: archeologo del caos massmediatico
Renzo Margonari 1998
Benchè quasi tutti i pittori, abbiano tentato una volta o l'altra, di motivare le ragioni per cui hanno prediletto esprimersi impiegando il linguaggio pittorico, non si annoverano dichiarazioni che siano ineccepibilmente razionali, mentre potremmo rilevare che son proprio i pittori “razionalisti” a fornire le motivazioni più incongrue. Ciò, anche se non volesse significare altro che il disagio dell'esperienza figurativa a tradursi in parole, computa una volta ancora l'evidenza dell'autonomia pittorica come linguaggio autoreferente. Non importi di che pittura si tratti. Gli artisti dipingono per i motivi più disparati e persino folli o assurdi, forse anche per disperazione. Quest'ultimo sentimento sembra motivare segretamente le immagini realizzate da Ugo Levita.
Poichè sono quadri in cui si addensano citazioni figurative, filosofiche e letterarie, è facile cedere alla tentazione di osservarli ponendoli in relazione con le tendenze anacronistiche o, appunto, citazioniste poiché le strutture formali sulle quali si reggono le articolazioni di questi dipinti rispondono a un indefinibile rispetto della tradizione classica, così come l'esecuzione evidenzia, sotto il profilo tecnico, chiare competenze di fattura assolutamente e consapevolmente antiche, con cura per il dettaglio e la bella definizione cromatica, a tutta tavolozza, per nulla inclini agli “effetti” e agli artifici, bensì condotta in punta di pennello, con abilità ma senza sfoggio, dove però non mancano le velature sapienti e i plastici chiaroscuri, le speculazioni tonali.
Se si dipinge per disperazione si è costretti a farlo come Levita, evocando contenuti e significati con intento apotropaico, un rituale salvifico nel cui immaginario possano confluire l'antropologia culturale del vissuto e del vivente, la cultura locale che essendo stata capitale può dispiegarsi su orizzonti internazionali rispetto al moderno e al contemporaneo, la confluenza per rivoli ormai inestricabili nella formazione del melting-pot dei messaggi visivi metalinguistici, ma con ciò senza rinunciare alla precisazione di una personale scelta che induce ad attaccarsi alla certezza della tradizione pittorica come naufraghi a uno scoglio affiorante nel mezzo di un mare tempestoso.
I dipinti di Levita sono infatti quadri apocalittici: non lasciamoci accattivare dall'apparente solidità delle forme, dalla stabilità delle composizioni, dalla materialità della sua pittura oggettiva. In queste immagini evocanti parvenze che ci sono familiari per cultura o esperienza non vi è nulla di rassicurante. Piuttosto ne siamo inquietati: si tratta di Wunderkammern dove un appassionato e colto collezionista ha raccolto i preziosi reperti figurali della nostra epoca o non invece di una discarica in cui sia stato riversato spregiativamente il prodotto rifiutato, lo scarto culturale dei nostri tempi, e tra i rifiuti la fotografia fashion accanto al calco d'un capolavoro, la riproduzione d'un dipinto sommo, l'illustrazione di un tipo esotico?
Se vogliamo individuare un'area nella quale Levita va a rovistare concettualmente ci aspetta un territorio amplissimo, tra Caravaggio e Magritte. Ma non si può ignorare, per bene interpretare questi dipinti, che tra Caravaggio e Magritte c'è di mezzo un dramma devastante. Le immagini così “riciclate” sono percorse da un vento folle e d'abbandono che le arruffa una sull'altra e questa mancanza di rapporto tra loro, come già avvenne nei metafisici dechirichiani, provoca in chi le osserva uno stato di spaesamento. Il “già visto” sembra scosso da un fremito insano. Si crede proprio che questi dipinti siano icone tratte in salvo dall'apocalittico naufragio massmediatico, nella nostra esperienza postmoderna alle soglie di un nuovo millennio, ultimo appiglio per noi orfani della cultura e dell'umanesimo, naufraghi dell'amore e dell'arte. Levita ha coscienza d'immaginare un “altrove” culturale in cui i dati sono repertati come nozioni estranee all'oggi, spoglie ancora calde, che si nutrono di ieri, dove lo stesso mestiere di pittore è visto come una trouvaille archeologica; ha coscienza di trovarsi ai bordi del margine storico non superabile senza perdita d'orientamento ma già superato. Di questa materia ancora palpitante teniamo conto però come di un fossile. Tale sua pittura ossessivamente farcita di simboli potrebbe aiutarci a formarcene un'idea omologante del genere simbolico-surrealpop. Ma dobbiamo ogni tanto, come in questo caso reagire al diffuso vizio sinottico e schedatorio che troppo spesso consiste in un'agiografia che appiattisce le diversità ed erode le cuspidi distintive tra artisti simili. Difatti conosciamo pittori analoghi ai modi di Levita dai quali però egli si distingue per il suo appassionato confondersi nel catafascio dell'apocalisse immaginativa in cui viviamo, incalzati dalle sospettabili e minacciose “multimedialità” elettroniche e cibernetiche. E se pure avessimo di quest'ultime opinione positiva, come si può non disperare per la nostra orfanezza della pittura? E' così che si osservano questi dipinti come costituissero un museo eclettico o un deposito casuale della cultura figurativa di questo secolo, repertorio del consumismo mediatico-iconologico contemporaneo.
Simile interpretazione può sostenersi con l'osservazione che per prima si afferma nel denotare che le immagini sono determinate da elementi accuratamente “ritagliati” e depositati in uno spazio che non è quello fisicamente definito secondo l'idea euclidea: insomma come fossero un collage. Di conseguenza ci si chiede perché mai l'artista si assoggetti alla faticosa e laboriosa realizzazione pittorica di iconografie che, infine, si affermano come un insieme di elementi incongrui che si mantengono ben separati l'uno dall'altro, quasi senza entrare in frizione, in dimensioni multiprospettiche e, dunque, non presumono convivenza sebbene si affaccino tutte insieme alla nostra percezione visiva. Plausibile risposta che, in quanto “la pittura è arte della finzione”, essa può giungere anche alla finzione di sé medesima, proponendo in un'unica dimensione tutta la propria cultura specifica – non per calcolo matematico bensì idea spaziotemporale – dal graffito rupestre all'immaginifico virtuale.
Poi bisogna riconoscere come un dato magnificamente qualificante l'appartenenza, tanto intensamente vissuta, di Ugo Levita alla sensualità artistica della sua regione; quel gusto dell'accumulo e dell'abbondanza decorativa che ha originato l'assoluta meraviglia dei presepi napoletani e della lavorazione del corallo, quel piacere per l'accumulo, il riutilizzo, l'assemblaggio, e la capacità di restituire una verità poetica multietnica e multiculturale che in Italia non ha il pari, come l'ha espressa questa capitale ispano-franco-araba, la cui gente, anche, è quella che s'è affiancata ai neri statunitensi per dar vita alla musica jazz, unico vero contributo culturale autoctono d'Oltreoceano, dove peraltro il cinema è stato arte dominante nella quale da sempre vige tutta una mitologia italonapoletana di tecnici e interpreti.
Nei dipinti di Levita si può vedere il Vesuvio in veste pop col pennacchio di fumo liberty che s'avvolge in spire come le capigliature delle donne di Toorop con un cielo saviniano a linee spezzate e un panneggio caravaggesco, o figurazioni dell'Africa Centrale con la maschera di Pulcinella e la visione Art Nouveau di pitture antiche egizie; la descrizione da scrupoloso ornitologo di un uccello raro al valore d'illustrazione scientifica insieme a una scultura di Wildt, o una statua romana, o del dio azteco Quezacoatl. Potremmo, a nostra volta, ritagliare parti di questi dipinti e mescolarle con altri lavori di Levita e ne avremmo quadri con la medesima valenza e stesso senso poetico.
Tanto amore, tanto raccogliere immagini, tanta scienza e conoscenza per la storia dell'arte, cos'altro potrebbero rappresentare se non disperazione per la perdita loro nella nostra esperienza materiale quotidiana? Vi è il sentimento dell'abbandono e del rimpianto nostalgico. E' nell'accostamento del bucchero etrusco all'infame gadget di plastica, nel vilipeso resto di un calco scultoreo accanto alla scritta utilitaria che possiamo sentire come questa passione, quest'enfasi, sollecitano un'emozione ben diversa dagli indifferenti artifici citazionisti o anacronisti omologati dalla critica, non altrettanto necessitati.
Un'ulteriore osservazione si rende utile per la conoscenza dell'opera di questo pittore è che, se non piccolissimi dettagli, nei suoi quadri quasi nessun dato iconografico è rappresentato per intero. Quasi esclusivamente sono brani, frammenti, elementi separati, mai innestati o interagenti che chiaramente ci dicono come l'idea di questo pittore – solo per imperdonabile superficialità possibilmente inteso realista – denunci l'incapacità nostra a cogliere l'insieme di una realtà ormai, sì deteriorata, consumata, erosa, ma ancor percettibile sebbene abbia perso ogni consequenzialità storica, il significato antropologico originario, non dica più il proprio connotato culturale. Persino le figure umane non sono intere, mai, e neppure i volti che vengono mascherati con strani maquillages, o svaniscono, o si nascondono nell'ombra più scura: l'aspirazione individualista in una realtà composta a caterva. In fondo questo pittore di altari laici, questo Bosch postmodernista, è un'iconoclasta. Si veda anche come le sue figure siano sempre disposte verticalmente, anche nei dipinti d'impianto orizzontale, e di norma bipartite talvolta simmetricamente mentre spesso affiori la più ovviamente classica costruzione piramidale. E' che seppure non sappiamo attribuire precise connotazioni ai nostri fantasmi, li abbiamo di fronte, eretti e inevitabili, ma intraducibili, incomprensibili, ereditati dalla storia umana, come un muro; sono i graffiti del DNA culturale circolante, attivo, senza che si possa dire coscienza, accanto alle verità del corrente sentimento. Un caos di sensazioni, di reazioni, simboli che hanno preso significanti differenti da quelli per cui furono inizialmente tracciati, idee sfuggenti, ma soprattutto la certezza che lo spaziotempo in cui può operare l'artista si percorre in ogni direzione, anche a ritroso; non si ammette né un prima né un dopo. Altrimenti bisognerebbe accettare l'idea che nulla è più sinteticamente attuale del graffito rupestre preistorico cui si rifanno tanti artefici della pittura odierna. La poesia non ha, fondamentalmente, significati occasionali che la possano qualificare più o meno”moderna”; deve solo esistere. Ma quando vengono a mancare parametri che valgono a giustificare l'ammissione di un linguaggio comune, quando non si hanno punti di riferimento convenuti, né soccorrono i concetti etici che sostenevano sin qui il concetto della sequenzialità e della progettazione artistica, avviene quanto accade nei dipinti di Ugo Levita. La sua attenzione per il dettaglio, risponde all'impossibilità di rappresentare coerentemente un intero, nasconde in realtà un odio feroce per l'icona così smembrata, estranea al proprio contesto come viene percepita dai contemporanei, nel bombardamento insensato, contraddittorio e ossessivo che volenti o meno subiamo ogni istante, la odia al punto che ne raffigura lo snaturamento del senso, smarrisce la relazione col tutto, ne distrugge l'identità precipitandola in un caos non significante attribuendole dunque un diverso significato: non da oggi sappiamo quanto il nonsenso sia ricco di riferimenti più che razionalmente e altamente delineati. Ma pure sappiamo che odio e amore sono frutto di una medesima passionalità. E' per restituire vita alla vita, arte all'arte, arruffando disperatamente una costruzione difensiva contro la nube montante della barbarie elettronica, raccogliendo alla rinfusa ciò che il gran vento viene scaraventando in ogni direzione, che Levita interviene perpetrando ancora una volta l'antico rito propiziatorio della pittura.