UGO LEVITA

 pittore

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Guardare un dipinto di Ugo Levita:
esperienza terapeutica


Sono un giullare errante, non catalogabile, voracemente curioso ma sono anche un feroce capoccione che non ama il verbo sacro degli “addetti ai lavori”... Oggi mi si chiede di raccontare  che cosa ho provato e provo tuttora di fronte alle molteplici forme d’arte che ho visto, ammirato o detestato nelle mie erranze in questo mondo straordinariamente complesso,  ancora  affascinante, raramente, e sempre più spesso, così fasullo, cialtronesco, superficiale, disumano, sconcertante e inquietante.                                                                                            

 Sono un animale istintivo, incapace di decifrare ciò che si nasconde dietro quelle forme d’arte contemporanea che fin dal primo impatto mi lasciano totalmente indifferente,  tanto sono sprovveduto e in parte volutamente ostile all’arcigogolante esercizio intellettualoide e pippaiolo di trovare sofisticate emozioni, sensazioni e spudorate   interpretazioni davanti all’inarrestabile florilegio di insipienti opere modaiole che  vanno per la maggiore, specie  in senso commerciale.                                                                                                                                                  Negli anni ’70 ero a Orvieto dove per amore delle opere del compianto scultore Giulio Ciniglia, per anni creatore delle scenografie lignee dei miei spettacoli, organizzai con l’aiuto del Comune e di alcuni illuminati privati  la mostra “Uno scultore a Orvieto”. Le imponenti  opere in marmo, travertino e legno di Ciniglia furono disseminate per un mese in tutta la città,  nei giardini e sugli spalti della Fortezza dell’Albornoz,  nelle piccole piazzette del complesso urbano e senza che nessuna di esse fosse minimamente manomessa o vandalizzata, nonostante l’assenza totale di guardiani. Alla fine della mostra le firme dei visitatori superavano le 25.000, le recensioni critiche della Stampa nazionale e regionale superavano la quarantina. Tra le firme illustri, ricordo Ruspoli, Margonari, Trombadori, Dall’Orto.

                                                                                                                                                               

 Durante il mio lungo soggiorno orvietano trovai il tempo di leggere, nei preziosi archivi cittadini una copia del contratto imposto dai committenti a Luca Signorelli  prima che iniziasse il suo capolavoro assoluto con il monumentale affresco sul “Giudizio Universale” che orna la Cappella di San Brizio nel sublime Duomo di Orvieto, a parer mio una delle più belle chiese del mondo. Contabilizzando grossolanamente il tutto: vitto, alloggio e pagamenti in natura e in danaro, ritengo  che con i guadagni del Signorelli  oggigiorno si comprerebbe a mala pena un’incisione  di Salvador Dalì,  e è risaputo ormai con quanta facilità ne sfornava.  Per arricchirsi. Meditate gente!...                                                                                                                

Scusate la digressione e torniamo alla motivazione di questo mio intervento. Ultimamente sono stato ricoverato in ospedale a Terni per oltre tre settimane e psicologicamente ho interpretato la mia degenza come un preavviso di imminente rottamazione. Ero piuttosto depresso, fissavo per ore la parete spoglia davanti al mio letto e leggevo nelle sue screpolature e irregolarità forme e figure evanescenti che variavano con la luminosità delle ore che scorrevano lentamente.                                                                                                                        

 Prima del ricovero Ugo mi aveva accennato che avrebbe esposto a Todi due opere che già avevo ammirato nel suo studio tempo prima: il Trittico e la “Ninna nanna”.  Chiesi a mia moglie di farmene delle fotocopie  abbastanza grandi e di “scotciarle” sulla parete di fronte al mio letto in modo tale che potessi guardarle e rimirarle a piacimento.                                                

 Premetto che ho scoperto l’opera di Ugo Levita poco più d’un anno fa e sono rimasto affascinato  per la straordinaria chiarezza e maestria  delle forme, per l’armonia dei colori e per la complessità dei contenuti  che Ugo scrive con la sua inimitabile tavolozza in ogni suo dipinto.  Da sempre, ritengo che soltanto i veri artisti: siano essi poeti, scrittori, musicisti, pittori, scultori, architetti, ecc. posseggono un’arcana, alchemica e rarissima  capacità profetica di preannunciare nelle loro opere, e con anni d’anticipo, i grandi avvenimenti che regolarmente accadono e ci trovano, il più delle volte impreparati, sconcertati e incapaci di affrontarli adeguatamente. Purtroppo si tratta quasi sempre di tragici accadimenti.                                                

Ebbene durante la mia degenza, fra una flebo e l’altra, ho guardato per ore ognuna delle sue opere, sorpreso del fatto che ognuna di esse mi appariva come un incunabolo prezioso e affascinante da decifrare lentamente ... un’immagine dopo l’altra ... d’improvviso un dettaglio, un colore diventavano la chiave per avanzare nella scoperta e nella comprensione della complessa  raffigurazione narrativa dell’autore.                                                                                  

 E per ore, dimenticavo completamente di essere ammalato, di essere rinchiuso in una stanza d’ospedale, non avvertivo più il disagio di aghi, di tubicini e cateteri  infilati nel mio corpo, viaggiavo in un universo policromo, cosmico, surreale, alchemico, risplendente e cupo,  affascinante e inquietante, sereno e tragico, scoprendo la  forza, la grandezza e l’importanza dell’arte nella vita degli esseri viventi e nella storia dell’umanità.                                                                            

Nei dipinti di Ugo scoprivo quel magico filo rosso che lega la sua affascinante opera e la sua tecnica così sapiente ai grandi del passato, al  mio adorato Caravaggio, a Piero della Francesca, Raffaello, Tiziano, Wermeer, Rembrandt, Velasquez, Goya e tanti altri, a quelli d’un passato più recente: Manet, Van Gogh, Cezanne, Schiele, Hopper, Magritte e compagnia bella. Quante sfaccettature, quanta perfezione esecutiva e quanti riferimenti culturali in ogni suo dipinto! Quanta conoscenza, quanta immaginazione e quanta generosità d’approccio nei riguardi dello spettatore che Ugo prende per mano e lo introduce nei meandri del suo affascinante operare, prima di abbandonarlo al proprio personale fantasticare.  Opere grandiose, rigorosamente oneste, sapienti, folgoranti, cornucopie curate nei minimi dettagli e, nel mio caso specifico, anche opere taumaturgiche. Grazie Ugo!                        

La mia rapida guarigione ha sorpreso i medici curanti, particolarmente uno di loro che trovò il tempo di  lasciarmi raccontare quale toccasana rappresentassero per me quelle cinque fotocopie appese sul muro. Ne parlò, presumo, agli infermieri e tre di loro vennero al mio capezzale per chiedermi di raccontare anche a loro la storia dei tre vendicativi guerrieri cosmici del “trittico” e quella dell’errante flautista andino con il cappello ornato di pappagalli che riconforta con la musica di una ninna-nana i due incolpevoli fratellini palestinesi di Gaza soli, terrorizzati e sperduti, vittime innocenti,  fra le rovine di un mondo spietato.
Dipinti profetici , indimenticabili.
Grazie di avermi letto.


Beppe Chierici, 2015